Unico, sregolato, spudoratamente schietto e sincero: è “Ok“, il nuovo disco di Gazzelle raccontato dalla sua stessa voce

Tempo di nuova musica per Flavio Pardini, alias Gazzelle, cantautore romano classe ’89 che, nel giro di breve tempo, ha fatto incetta di consensi e gratificazioni, arrivando dritto al cuore del pubblico senza troppi preamboli e cerimonie. “Ok“ è il titolo del suo terzo album, disponibile per Maciste Dischi a partire dallo scorso 12 febbraio.
Qual è stata la genesi di questo progetto?
«”Ok” è nato un po’ come gli altri dischi, ovvero dalla necessità di realizzarlo, dall’urgenza creativa di scrivere queste canzoni. E’ il modo che ho per affrontare me stesso, esorcizzando i miei stati d’animo. Un album composto subito dopo il primo lockdown, in maniera molto rapida e istintiva».
Quali skills pensi di aver acquisito rispetto a “Punk”?
«Per forza di cose, negli anni ho accumulato delle esperienze, anche grazie ai concerti, maturando una maggiore consapevolezza di come si crea un disco. Ho cercato di fare dei salti di livello anche nel linguaggio, trovando il sound più adatto per ogni singola canzone, provando a diversificare per non ripetermi e non realizzare un album uguale al precedente».
Oggi ti senti più cantautore o rockstar?
«Non saprei, in realtà non mi sento un cantautore classico. Sono orientato verso uno stile rockeggiante, più che nelle sonorità intendo nell’attitudine, nell’approccio. Tra De Gregori e Vasco Rossi, mi sento più vicino a Vasco».
In tanti si ritrovano nei tuoi brani, l’hai scoperto poi il segreto?
«Anche se lo avessi scoperto, di certo non lo direi a nessuno, tantomeno in un’intervista (ride, ndr). Diciamo che non ho mai analizzato bene la cosa e non mi va nemmeno di farlo, perchè trovare una formula renderebbe le mie canzoni scontate e prevedibili. Non mi interessa capire i miei punti di forza, perchè non vorrei che, un giorno, questi potessero relegarmi o incatenarmi artisticamente».
Bruno Lauzi diceva: “Scrivo canzoni tristi, perché quando sono allegro, esco”. Appartieni anche tu a questa scuola di pensiero?
«Io scrivo canzoni tristi perchè non so fare altro in realtà, spesso non esco neanche quando sono felice. I dolori, le frustrazioni e i dispiaceri mi ispirano di più rispetto alle gioie che la vita ci offre, penso sia una cosa inconscia. L’umanità in generale tende ad avere più momenti negativi, proprio per questo consideriamo preziosi quelli positivi, che non andrebbero mai ostentati. Detesto chi ti spunta in faccia la propria felicità, i propri traguardi e la propria ricchezza, di solito mi infastidisce. Tirare fuori le debolezze è difficile, ma lo trovo più interessante ai fini della narrazione, per creare empatia con chi ti ascolta».
Esiste ancora una differenza tra indie e pop, oggi?
«Penso ci sia stato un ricambio generazionale, ma alla fine è sempre pop, non considero la mia musica alternativa. Sicuramente viviamo in un’altra epoca e la stiamo cantando noi, con i nostri suoni e il nostro linguaggio. All’indie si può attribuire un valore di indipendenza discografica, in questo penso di essere uno degli ultimi rimasti, perchè non ho firmato con una major, sono rimasto con l’etichetta con cui sono nato. Questa cosa mi qualifica come un artista “indie”, nel vero senso della parola, ma a livello di genere faccio decisamente pop».
Sei anche uno dei pochi a non aver mai partecipato a Sanremo, cosa ne pensi del cast di quest’anno?
«Sai, non amo molto le gare in campo artistico. Essendo per natura competitivo, finirei per voler vincere, altrimenti ci rimarrei male, di conseguenza entrerei in un circolo vizioso di turbe negative. Preferirei andarci come ospite, quello sì che sarebbe un bel goal. Riguardo quest’anno, finalmente nel cast ci sono nomi nuovi, un segnale importante di ringiovanimento del Festival. Farò il tifo per il mio amico Fulminacci, però, pure per Orietta Berti ecco»».
Sicuramente è uno dei pochi luoghi dove poter fare musica dal vivo, in un momento come questo. La stai patendo l’astinenza dai live?
«Sì, i concerti mi mancano da morire e comincia a darmi fastidio questa noncuranza da parte delle istituzioni. Non solo per l’aspetto emotivo e romantico della questione, ma per un fatto di umanità, per tutte le persone che lavorano dietro ai concerti. Spero trovino presto delle soluzioni».
A livello sociale, secondo te la stiamo imparando qualcosa di buono da questa situazione pandemica oppure no?
«Non credo ci sia molto di buono da imparare da un virus che arriva, ti ammazza o ti chiude in casa. Se proprio dobbiamo trovare qualcosa di positivo, spero che la gente abbia fatto pace con le proprie priorità, soprattutto a livello di rapporti umani. Per quanto mi riguarda, ho capito chi sono le persone indispensabili per la mia vita, però, diciamo che avrei voluto scoprirlo col tempo, crescendo, non forzatamente come con questo maledetto virus».
In conclusione, quali sono gli elementi e le caratteristiche che ti rendono orgoglioso di “Ok”?
«Penso che sia un disco unico, sregolato, spudoratamente schietto e sincero, che non è sceso a compromessi con il mercato discografico. Un album libero, come gli altri che ho fatto, ma con un focus più preciso sul il mio estro artistico».

© foto di Andrea Mete