Si è posizionato a metà classifica – tredicesimo posto – Combat Pop, il brano portato in gara a Sanremo 2021 da Lo Stato Sociale. Lodo, Checco, Albi, Bebo e Carota anticipano così il nuovo album in uscita il 12 marzo in doppio CD, già disponibile sulle piattaforme digitali: Attentato alla musica italiana (Garrincha Dischi/Island Record) è il quarto lavoro del collettivo bolognese.

“A canzoni non si fanno rivoluzioni”, così recitate nel brano. Tre anni fa con Una vita in vacanza, però, una piccola rivoluzione c’è stata.

«Abbiamo aperto una possibilità di mercato, pur essendo una delle tante band indipendenti ad aver provato questa esperienza. Abbiamo portato un modo di stare sul palco che prima non esisteva, questa è la verità».

La rivoluzione è passata anche nel dare voce ad ogni singolo componente nel corso dell’esibizione. Come siete arrivati a questa scelta?

«Nelle ultime settimane abbiamo pubblicato in streaming cinque dischi – i cinque capitoli di Attentato alla musica – uno per ogni componente della band. Abbiamo dato modo di fare spazio ad ogni singola personalità, una cosa impensabile per molti. Anche per questo ci consideriamo la più grande band italiana di questo Paese, cos’altro manca?».

Esibirvi senza pubblico deve essere costato molto per voi.

«Abbiamo lavorato molto di immaginazione, ci siamo adattati a questo “pacco”. Siamo abituati a scrivere e comporre per aggregazione e socialità, per avere riscontri immediati in presenza e non averlo fatto quest’anno ha rappresentato una sfida per rendere più efficace la nostra direzione espressiva».

Siete passati dal “Vivere per lavorare o lavorare per vivere” a “Fare canzoni pop per vendere pubblicità?”: si tratta di una evoluzione critica sul sistema?

«Se si smette di criticare si smette di vivere. Criticare per vivere o vivere per ciriticare? Questo lo lasciamo decidere agli altri. Anche se la parola critica è nota per la sua accezione negativa, crediamo che sia interessante perché fa parte del confronto con tutto quello che ti cirrconda, che ti porta a crescere ed emergere».

Alcuni hanno definito questo come il Festival dell’indie italiano. Vi considerate i precursori di questa tendenza?

«I mutamenti non sono così repentini come si è soliti raccontare. Ci sono eventi storici che segnano il passo, ma il processo è lento. Noi siamo stati tra i primi a sdoganare questo genere con questo tipo di spettacolo televisivo, a cui non c’è stato alcun seguito. La quota è in crescita, con questa nuova generazione c’è un aggiornamento in corso».

Vi considerati veterani ormai?

«Ci siamo proposti ai consensi popolari – e televisivi – al momento giusto nel posto giusto. Considerarci veterani forse no, non siamo così vecchi. Se prima c’era l’esigenza di fare emergere uno spaccato conosciuto a pochi, oggi c’è un maggiore senso di appartenenza».

A Milano avete debuttato al MiAmi del 2012 al Magnolia. Perché all’inizio non piacevate molto?

«Il nostro saper far divertire il pubblico dava fastidio a tutti quelli che avevano più esperienza di noi. Avevamo un grande seguito ai tempi e in una scena che seguiva canoni precisi generava, spesso, molto odio. Quando succede questo vuol dire che stai facendo qualcosa di significativo, se piaci a tutti vuol dire che hai smesso di funzionare. Dovremmo preoccuparci se oggi, tendenzialmente, ci odiano meno».

Cosa è rimasto in voi di quel periodo?

«La volontà di rompere gli schemi e la consapevolezza di riuscire ad esprimerci verso un pubblico più ampio. Da quei tempi ha avuto inizio quella parabola che è andata esprimendosi in crescendo fino all’exploit del 2018 con il climax espressivo della band dove abbiamo dimostrato chi eravamo dopo quasi dieci anni di carriera. In seguito abbiamo vissuto tutto quello che è arrivato dopo il nostro successo e lo raccontiamo in Combat pop, i compromessi di trovarsi in questo ambiente».