Ironico e tagliente, Max Gazzè è reduce dalla sua sesta presenza festivaliera. Il farmacista è il titolo della canzone proposta in gara, una sopraffina provocazione mista ad un sound incalzante

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Com’è stato tornare al Festival in un’annata così particolare?

«E’ stato senz’altro un Festival anomalo, abbiamo vissuto un po’ tutti questa condizione cercando di carpirne il senso, anche a livello emotivo. Ognuno ha svolto il proprio mestiere in maniera eccellente, consapevoli del fatto che si è trattato di una bella finestra sul mondo della musica. Mi è mancata un po’ la confusione tipica di Sanremo, però ci si adatta serenamente. Da parte di tutti c’è stata la voglia di dimostrare che le cose si possono realizzare, se fatte con criterio, anche in un momento come questo».

E in un momento come questo, una canzone come “Il farmacista” può far riflettere, svagare o entrambe le cose?

«Spero entrambe le cose. La canzone è nata prima dello stato pandemico, però in questo momento assume un significato evidentemente diverso. Il protagonista spiega, racconta e cerca di salvare il proprio amore da qualsiasi tipo di problema, come a voler trovare a tutti i costi un rimedio per qualsiasi cosa. In un periodo in cui tanti pensano di avere la soluzione in tasca, questo brano arriva come una pungente denuncia sociale, ma sempre con una buona dose di velata ironia. C’è tanta confusione a riguardo, non mi stupirei se un giorno un virologo diventasse capo di un partito o addirittura Presidente della Repubblica (ride, ndr)».

Sei stato uno dei pochi artisti a non portare in gara una canzone d’amore, secondo te, ha in qualche modo contato sulla classifica finale?

«Non saprei. E’ chiaro che il Festival rappresenti come stereotipo sia la canzone romantica che il bel canto, mentre “Il farmacista” non è un brano che esprime una vocalità di questo genere. Nella percezione dell’ascoltatore, probabilmente, è un pezzo che non corrisponde ai canoni sanremesi, proprio per questo non mi aspettavo certo di arrivare tra i primi posti. Adoro quando mi posiziono a metà classifica, mi piace mantenere una sorta di anonimato».

Hai patito l’assenza del pubblico in sala?

«Onestamente no, perchè ero consapevole del fatto che dall’altra parte della telecamera ci sarebbero stati milioni di italiani incollati allo schermo. Il panico da palcoscenico in realtà non lo subisco, però lo vivo come un momento importante, anche se mi emoziono e in qualche modo mi agito un po’, provo un grande piacere perchè sono sensazioni che ti fanno sentire vivo, a prescindere dalla presenza del pubblico in sala. Immagino sia stato più difficile per chi il Festival lo ha dovuto presentare. Per quanto mi riguarda, ho avuto il grande piacere di suonare nuovamente con una vera orchestra, tutto il resto è superabile».

Forse, la vera difficoltà è rappresentata dal testo che, lasciatelo dire, a tratti è incantabile...

«Beh, in effetti: Secobarbital, Stramonio e Pindololo, Dimetisterone, Norgestrel in fiale. Però le assonanze sono meravigliose e rappresentano i nomi dei principi attivi necessari per risolvere il problema che viene descritto, non sono farmaci irreali. Merito è della bontà e della maestria di mio fratello Francesco, il quale ha firmato il brano insieme a me e Francesco De Benedittis. Da anni manteniamo questa linea del suono delle parole, tanto importante quanto il loro significato. Una canzone per noi è come una poesia cantata, che rende il risultato finale orecchiabile, vicino quasi ad una filastrocca, proprio come era già capitato in passato con altri brani come “Sotto casa” o “Il solito sesso”. Con le assonanze giuste, anche un termine come Trifluoperazina può essere cantato (sorride, ndr)».