Intervista al cantautore milanese classe ’98 Antonio Guadagno, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Manfredi, al suo esordio discografico con “Kintsugi“, disponibile dal 16 aprile per Foolica e distribuito da The Orchard

Quali elementi e quali caratteristiche ti rendono orgoglioso di “Kintsugi”?
«Sono orgoglioso di “Kintsugi” perché è un disco molto vero. Lo so, è banale da dire, ma secondo me l’onestà non si può dare per scontata nel mercato discografico odierno. Tutte le canzoni sono autobiografiche, non ho inventato nulla, per ciascuna potrei dirti di chi parla e quando l’ho scritta. E’ il mio primo disco, so bene che non è perfetto, ma so anche che se lo riascolto tra 10 anni potrò dire “è vero, a vent’anni ero proprio così”».
Ci sono delle tematiche in particolare che hai sentito di voler raccontare in questo tuo album d’esordio?
«Essendo il mio primo disco ci tenevo a farmi conoscere e a raccontare qualcosa di me, per questo motivo ho selezionato tutti quei brani scritti in momenti chiave della mia vita. “Porte chiuse”, ad esempio, l’ho scritta la mattina del mio orale di maturità, “Vorrei bastarti” invece l’ho scritta dopo la mia prima volta, “Inventerò una scusa” subito dopo la fine del mio primo amore. Sono tutti canzoni che raccontano momenti che mi hanno segnato, che mi hanno fatto diventare chi sono oggi».
Quali skills pensi di aver acquisito durante la lavorazione di queste dieci canzoni?
«Penso di essere cresciuto davvero molto lavorando a questo disco, sia come persona che come artista. Ho avuto la fortuna di collaborare con tanti professionisti, tra cui Simone Sproccati, Leo Pari, Matteo Cantaluppi, persone che fanno questo lavoro da anni e che hanno sempre cercato di insegnarmi qualcosa, senza mai farmi pesare il fatto che ne sapevano più di me. Mi hanno in qualche modo preso sotto la loro ala e io ne ho approfittato per imparare tanto».
Che tipo di sonorità avete scelto, insieme al tuo producer Matteo Cantaluppi, per esprimerti al meglio?
«Cercavamo dei suoni “grandi”, che riempissero la stanza e che ti facessero venire voglia di alzare le mani al cielo e di cantare come allo stadio. C’è stata molta attenzione sui crescendo che portano ai ritornelli e anche sulle code dei brani perché secondo me un pezzo funziona solo se hai voglia di ascoltarlo fino alla fine. Abbiamo anche cercato di spaziare con le sonorità, la demo di “Amico immaginario”, ad esempio, era completamente diversa, il risultato finale è stato un colpo di genio di Matteo. Ci è piaciuta un sacco e l’abbiamo tenuta così».
Credi con questo disco di essere riuscito a raggiungere il giusto equilibrio tra chi sei e chi vorresti essere?
«Credo che questo disco racconti bene chi ero. Da quando ho iniziato a lavorarci sono passati due anni, ora che l’ho pubblicato posso concentrarmi sul capire chi sono ora, alla fine di questo capitolo della mia vita. Sento che è arrivato il momento di vivere nuove esperienze e di scrivere nuove canzoni».
Ti senti rappresentato dall’attuale mercato e da ciò che si sente oggi in giro?
«In giro c’è tanta musica, qualcosa mi rappresenta e qualcosa no. La trap ad esempio la ascolto ma non mi rappresenta. Non credo che la musica si basi sul “prendersi tutto”. A me piace più “dare qualcosa” a chi mi ascolta. Però capisco che molti trapper parlino del loro riscatto, del loro essere arrivati in cima. La cosa che non mi fa impazzire è questo mondo degli “artisti usa e getta”. Com’è possibile che un anno fa facevi disco di platino e oggi non ti ascolta più nessuno? Si dovrebbe lasciare che gli artisti crescano coi proprio tempi. Un esempio sono i Pinguini Tattici Nucleari che dopo 10 anni di gavetta ora riempiono i palazzetti. Quello è un traguardo da raggiungere, non i 15 minuti di celebrità».
Personalmente ti collochi in un genere particolare?
«Non ho ancora capito la differenza tra indie e pop quindi mi concentro solo sulle canzoni prima di fare brutte figure. Non ho necessità di collocarmi. Se ascolti una mia canzone e riesco a trasmetterti un’emozione io sono felice, il resto non mi importa».
Infine, buoni propositi e sogni nel cassetto per il futuro?
«Dopo il disco sogno il tour. Mi piacerebbe iniziare da qualcosa di intimo, per cantare insieme alle persone e per fermarmi a parlare con loro dopo il concerto. Mi auguro di scrivere un secondo disco, magari più maturo, sicuramente diverso visto che io col tempo sarò cambiato. Il mio grosso sogno sarebbe il disco d’oro, così posso togliere dal muro quel calendario dei Kiss che è lì dal 2013 per appenderci qualcosa di unico e speciale».

© foto di Federico Cataleta