I La Rua sono tornati per scrivere un nuovo capitolo nel loro percorso musicale, iniziato nel lontano 2012. Venerdì scorso è uscito il loro nuovo singolo “Sotto un treno“, un brano che racconta uno spaccato di vita dell’artista, voce e autore del pezzo, Daniele Incicco. Il frontman della band marchigiana mi ha raccontato nel dettaglio cosa significa fare musica dopo i 30 anni, il suo rapporto con il presente, il concerto al Green Village dell’Heroes Festival 2022, la collaborazione e il mutuo rispetto tra il gruppo ed Elisa (che ha anche supervisionato il loro prossimo progetto discografico) e il desiderio di verità che pervade i nuovi pezzi, presentati in anteprima proprio in questi giorni su un palcoscenico tanto importante quanto formativo: quello dell’Arena di Verona.
Come nasce il nuovo singolo «Sotto un treno»? Di solito, stare “sotto un treno” significa essere persi per qualcuno, ma qui prende un’accezione del tipo sono “da buttare via”. Può avere una duplice interpretazione…
«Il titolo nasce grazie ad una mia amica, con la quale mi sono ritrovato a parlare di una relazione che stava finendo. Ci sono quei giorni in cui ti svegli, c’è il sole, hai qualche impegno importante che ti dà tanta energia e scrivi: ‘Oh, stamane sto proprio bene!’. Poi inizi a parlare e di fatto parli solo di lei. La mia amica mi fa: ‘Guarda che stai sotto un treno!’ Ho pensato: ‘Cavolo, è vero! Devo scrivere un brano su questa sensazione’. Il pezzo nato in maniera diretta, viscerale, grazie anche alla chitarra elettrica, acustica e al pianoforte che avevo in casa. Ho fatto il provino del pezzo in trenta minuti e poi sono andato a casa di alcuni amici con cui avevo vissuto buona parte della clausura totale legata al COVID, per farglielo ascoltare. Mi hanno detto che il brano era una bomba. Io non ci credevo più di tanto, anche perché pubblicare questa canzone avrebbe voluto dire andare in tutt’altra direzione rispetto al passato. Mi piace quello che racconto nel pezzo. È stato un momento di confessione con me stesso. ‘Sotto un treno’ è un singolo senza fronzoli, privo di ragionamenti. È il frutto di un processo molto spontaneo».
Nel pezzo si parla anche della gestione di emozioni di diverso stampo. Quale emozione riesci a gestire meglio e quale fai ancora fatica a domare?
«È successa una cosa all’Heroes Festival che non mi era mai successa in tutta la mia vita. Quando avevo preso parte ad “Amici”, avevo scritto una poesia per mio padre che era stata trasmessa durante la trasmissione. All’epoca, ricordo che non ero scoppiato a piangere. C’è un brano che ho scritto durante il lockdown, che si intitola “Periodo di merda” e con il quale ho descritto esattamente come mi stessi sentendo in quel preciso momento. Stavo cadendo dentro me stesso e credo che si possa tranquillamente dire che si trattasse di depressione. Ho scritto il pezzo senza sapere cosa sarebbe successo della mia vita. Dopo la prima strofa cantata all’Heroes, sono scoppiato a piangere. Persino adesso che ne sto parlando ho il groppo in gola. Ho capito che le canzoni che ho scritto, forse non sono solo canzoni. Quando canto la verità, se mi appartiene tanto, mi uccide e poi piango. Credo di aver pianto per un minuto. Non sono riuscito nemmeno a cantare tutto il primo ritornello e sono rientrato in corsa durante la seconda strofa. È stato un bellissimo momento di condivisione con il pubblico, che piangeva a sua volta. Sembrava che qualcuno stesse pelando le cipolle tra di noi, invece la cipolla era proprio il brano! È stato un momento bello, un’emozione che non sono riuscito a controllare. Riesco a controllare le aspettative, un tempo erano altissime sui miei pezzi. Ora ho imparato a non averne dopo. Non importa cosa accadrà con il brano, ma importa essere stati onesti, sinceri, profondi e senza filtri. La musica deve metterci in condizione di comunicare con noi stessi. Mi piace il fatto che chi abbia ascoltato il brano si sia fatto un giro nella vita di Daniele».
Passati i 30 anni, con che occhi si guarda alla musica e come ci si rapporta con la musica stessa?
«Credo che cambi moltissimo! Noi del mestiere manteniamo quel bambino vivo e vegeto che spesso ci comanda troppo nella vita, nelle relazioni e nelle decisioni, ma diventa anche un po’ più uomo. L’uomo interviene nelle canzoni e non ha voglia di cantare cose che non sente o con cui non trova empatia rispetto a ciò che sente. È come sentire un ragazzo di quattordici, diciotto o diciannove anni e un uomo adulto. Si parla quando si ha qualcosa da dire e nella musica non riuscirei più a fare diversamente. La vedo come una cosa sacra perché ho visto cosa succede quando non viene trattata con sacralità: non ti da più niente indietro».

Avete aperto il concerto di Elisa all’Arena di Verona l’altro ieri. Come siete stati coinvolti nel progetto Heroes Festival e come è stato esibirsi proprio in quella magica cornice?
«Heroes è stato un evento davvero bellissimo. Il palco era fatto interamente d’erba, dato che l’eco-sostenibilità era proprio al centro del progetto. Appena siamo arrivati, ci hanno regalato dei prodotti biologici e la magica Elisa ci ha omaggiato di una bottiglia di grappa spettacolare (ride ndr.) Capisci che l’umanità va oltre l’arte! Lei è una persona magica. Il palco dell’Arena è un po’ come entrare al Colosseo: pollice in su e pollice in giù. Non hai grande possibilità di sbagliare, un po’ come nel caso del contesto televisivo, con la differenza che ci si trova in un luogo fiabesco e che ti cade addosso. Ho provato la stessa sensazione quando sono entrato nella Bombonera di Buenos Aires, che ha delle gradinate che quasi ti cadono addosso. L’impressione è che il pubblico ti possa abbracciare o picchiare (ride ndr.). Quando ero lì sopra ho ripensato a quelle canzoni nate nel mio monolocale durante il COVID-19, senza sapere se sarebbero mai uscite o che cosa sarebbe successo. Ascoltarle mi ha riempito il cuore».
State lavorando ad un nuovo progetto con la sua supervisione artistica. Che mentore è tutt’ora Elisa per voi? Com’è lavorare attivamente, concretamente e a livello creativo con lei in studio?
«Non so come descriverla. Eli ci è stata sempre vicinissima. Ci ha supportato e ha condiviso con noi ogni aspetto di questo progetto. Ha curato la supervisione artistica e ci ha permesso di studiare le canzoni per portare il fuoco vero dentro ognuna di esse. Mi ha aiutato a capire chi fossi artisticamente, un aspetto di me che avevo perso negli anni dietro ad una serie di ragionamenti che si è soliti fare. È stata un navigatore, una coach e in alcuni casi anche una sorella. Ha sofferto con noi quando non si riusciva a ripartire e alla fine ci ha fatto l’immenso regalo di invitarci ad aprire il suo concerto all’Arena di Verona, nel luogo più importante del suo tour. Ci ha letteralmente aperto le porte di casa sua, non è stato scontato».
Elisa sembra dare anima e corpo nei suoi progetti e in quelli in cui è coinvolta.
«Infatti mi ha fatto leggere queste canzoni con l’anima, la profondità e una grande onestà, anche per andare a cercare l’anima stessa delle cose. Non abbiamo ricercato il potenziale singolo o lo strumento da utilizzare per rendere tutto più figo. Ci siamo concentrati sul raccontare la realtà e qualcosa che facesse parte del nostro vissuto. Lei è stata la mia università di vita artistica, non avevo mai affrontato la musica in questo modo».
C’è stato un momento che ti ha portato a pensare: «Mi fermo definitivamente e chiudo con il mondo della musica»?
«C’è stato un momento in cui, dopo tre anni senza ripartenza del settore musicale, mi sono detto che forse non era il caso di continuare a spingere verso il niente. Mi sono fatto delle domande e ho iniziato a ragionare sul futuro. Ho fatto un colloquio di lavoro nella mia vecchia azienda, dove sono sempre stati super carini con me e mi hanno sempre lasciato una porta aperta. Posso confessare di aver avuto un grande momento di debolezza durante il quale ho fatto i conti con la parola “Basta”. Nel momento in cui ho fatto quel colloquio, mi sono sentito come quando si tira una monetina in aria per fare una scelta tra due opzioni. La tua paura è che questo porti con sé la scelta che non volevi. Mi sono fermato e ho detto: “Ma che c***o stai facendo? Questo non è il posto per me”. Mi hanno detto che giustamente non avrei potuto seguire la musica come stavo facendo in quel periodo. In quel momento ho capito che ero pronto ad insistere, continuare e prendere altre mazzate. La mia vita ha senso solo quando scrivo canzoni, le suono e stabilisco un contatto con il pubblico».
Cosa aspetta i La Rua quest’estate? Ci sarà spazio anche per dei live?
«Non credo che faremo tantissimi live, perché in questo momento ci stiamo concentrando sull’uscita dei brani ai quali abbiamo lavorato nella maniera più giusta, senza aspettative, e in modo tale che il pubblico possa sentire e comprendere appieno i pezzi. Faremo sicuramente dei concerti in cui canteremo dei brani che non sono ancora usciti, come è già successo all’Arena di Verona, dove ne abbiamo suonati ben quattro. Vogliamo evitare tutte le logiche di mercato e fare un discorso opposto, creando un legame con le persone. Un domani penseremo sicuramente a farli uscire. Ora come ora conta portare quelle canzoni sul palco e suonarle dal vivo».